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martedì 29 giugno 2010

Tu (non) sei il tuo lavoro

Gaber concludeva uno delle sue canzoni più appassionanti con la frase: "Due miserie in un corpo solo". Volendo raccontare dello spettacolo in oggetto, potrei sintetizzarlo con un'espressione quasi speculare, ovvero "la stessa miseria in due corpi".
Non sono un critico teatrale e non voglio giocare a farlo, perciò non mi cimenterò in una recensione. Posso solo dirti che a mio parere l'argomento "lavoro" in questo spettacolo è stato affrontato con grande capacità di analisi delle dinamiche della società moderna e delle ripercussioni che il modello sociale provoca nella testa e nel cuore degli uomini.
Il lavoro non è più uno strumento per guadagnarsi da vivere ma addirittura sostituisce, da senso alla vita stessa. Un senso di ubriachezza per lei, laureata in lettere che dopo aver sperimentato l'amarezza dei sogni infranti nelle cucine di un ristorante libanese a Londra durante l'erasmus ora si aggrappa al suo lavoro a progetto in una casa editrice, dove può finalmente lavorare con le parole, le idee e le persone in cambio di 1000 euro, la soddisfazione di aver soffiato il posto ad una collega in maternità e la continua minaccia di perdere tutto stigmatizzata dall'ossessivo desiderio di risultare indispensabile. Un senso di frustrazione per lui, che in un metaforico gioco delle tre carte ha scommesso su quella sbagliata, la carta della formazione, e nonostante una laurea ed un master (ed una collaborazione gratuita con l'università che sa più di sfruttamento che di esperienza formativa) non riesce a guadagnarsi il posto che meriterebbe nel mondo del lavoro e divide le sue giornate tra la depressione le ricerche sui siti specializzati, affacciandosi su Internet con l'amara speranza di chi aspetta ancora in un miracoloso sprint finale del cavallo su cui ha puntato tutto ciò che aveva.
Lei è il suo lavoro, lo è sempre stata, anche immersa nel puzzo delle cucine del ristorante finto etnico. La sua dedizione ossessiva ha i tratti del dogmatismo, quel lavoro fragile e sottopagato attenua i dolori dell'anima meglio di qualsiasi religione.
Lui non è il suo lavoro, se lo fosse sarebbe niente. Nessun lavoro, nessuna identità, questo il diktat ideologico che lui sembra rifiutare più per evitare di riconoscere un fallimento che per affermare una legge morale superiore a quella del mercato.
Ad acuire le nevrosi di entrambi, lo spettro destabilizzante di una possibile gravidanza. E qui la linea narrativa abbassa i toni dell'introspezione per introdurre un'ancor più devastante analisi del mercato del lavoro e del modello socio-economico occidentale. Una gravidanza non è solo un ostacolo per la carriera di lei, è quasi un terzo incomodo che cerca di insinuarsi e di interrompere l'idillio tra lei e il suo dio-lavoro. Lui non teme la responsabilità di diventare padre, ma è terrorizzato dalla consapevolezza che un figlio lo inchioderà ancor più dolorosamente alla croce del suo fallimento. In un crescendo di preoccupazione e paura, la parte consapevole ed inconsapevole dei due protagonisti in scena profetizza una nuova società in cui riprodursi diventa un privilegio solo per chi può permettersi il lusso di non lavorare. Tutti gli altri, in primo luogo le donne, potranno comunque essere felici e riconoscenti del fatto che avranno un lavoro a cui dedicarsi come ad una missione. Lo spettattore si chiede infine se questo mondo non è in realtà implicitamente già quello in cui vive assuefatto.
Personalmente, ritengo che la migliore qualità del testo (che ho trovato ben adattato e ottimamente interpretato) sia la capacità di sottolineare come nel mondo moderno così avaro di spiritualità questa dimensione, che volenti o nolenti fa parte del corredo genetico di ognuno di noi, venga occupata da idoli che dimostrano col tempo la propria inconsistenza. Dopotutto si può credere o non credere all'esistenza di un essere superiore creatore e signore del tempo e dello spazio, ma la storia ci ha insegnato che se non sono le tavole della legge a distruggere il vitello d'oro, ci pensa la nostra infelicità.