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lunedì 6 settembre 2010

Trilogia della RI-fondazione

In un blog che si chiama "Non di questo mondo" pensavo ci stesse bene questa breve riflessione già pubblicata su Anobii.

Cosa fareste se scopriste grazie a complesse equazioni matematiche che il mondo come lo conoscete sta per finire, non a causa di un cataclisma, ma dell'inarrestabile processo di decadenza della civiltà in cui siete nati? E se questo processo non fosse immediato, ma dovesse durare molte generazioni e molte altre dovessero nascere e morire prima che le sorti dell'umanità possano tornare ad uno splendore ormai morente?
Sareste disposti a impegnare ciò che resta della vostra vita e a chiedere ai vostri successori di dedicarsi alla costruzione di un progetto che nè loro, nè i loro figli, nè i loro nipoti vedranno realizzato, per ridurre le sofferenze di uomini e donne che non conosceranno mai?
In tempi come i nostri, in cui più del risultato conta la velocità con cui lo si raggiunge, in cui il numero delle persone per cui saremmo disposti a cedere un po' del nostro superfluo non supera le dita di una mano, l'epopea asimoviana ci ricorda quanto alto può essere il senso di sacrificio ed altruismo dell'uomo quando questi smette di cercare "verità per terra da maiali" e alza lo sguardo verso le stelle, non già quei punti luminosi lontani e insondabili nel cielo, ma piuttosto quei "mille splendidi soli" che possiamo vedere solo se smettiamo di restare piegati su noi stessi

martedì 29 giugno 2010

Tu (non) sei il tuo lavoro

Gaber concludeva uno delle sue canzoni più appassionanti con la frase: "Due miserie in un corpo solo". Volendo raccontare dello spettacolo in oggetto, potrei sintetizzarlo con un'espressione quasi speculare, ovvero "la stessa miseria in due corpi".
Non sono un critico teatrale e non voglio giocare a farlo, perciò non mi cimenterò in una recensione. Posso solo dirti che a mio parere l'argomento "lavoro" in questo spettacolo è stato affrontato con grande capacità di analisi delle dinamiche della società moderna e delle ripercussioni che il modello sociale provoca nella testa e nel cuore degli uomini.
Il lavoro non è più uno strumento per guadagnarsi da vivere ma addirittura sostituisce, da senso alla vita stessa. Un senso di ubriachezza per lei, laureata in lettere che dopo aver sperimentato l'amarezza dei sogni infranti nelle cucine di un ristorante libanese a Londra durante l'erasmus ora si aggrappa al suo lavoro a progetto in una casa editrice, dove può finalmente lavorare con le parole, le idee e le persone in cambio di 1000 euro, la soddisfazione di aver soffiato il posto ad una collega in maternità e la continua minaccia di perdere tutto stigmatizzata dall'ossessivo desiderio di risultare indispensabile. Un senso di frustrazione per lui, che in un metaforico gioco delle tre carte ha scommesso su quella sbagliata, la carta della formazione, e nonostante una laurea ed un master (ed una collaborazione gratuita con l'università che sa più di sfruttamento che di esperienza formativa) non riesce a guadagnarsi il posto che meriterebbe nel mondo del lavoro e divide le sue giornate tra la depressione le ricerche sui siti specializzati, affacciandosi su Internet con l'amara speranza di chi aspetta ancora in un miracoloso sprint finale del cavallo su cui ha puntato tutto ciò che aveva.
Lei è il suo lavoro, lo è sempre stata, anche immersa nel puzzo delle cucine del ristorante finto etnico. La sua dedizione ossessiva ha i tratti del dogmatismo, quel lavoro fragile e sottopagato attenua i dolori dell'anima meglio di qualsiasi religione.
Lui non è il suo lavoro, se lo fosse sarebbe niente. Nessun lavoro, nessuna identità, questo il diktat ideologico che lui sembra rifiutare più per evitare di riconoscere un fallimento che per affermare una legge morale superiore a quella del mercato.
Ad acuire le nevrosi di entrambi, lo spettro destabilizzante di una possibile gravidanza. E qui la linea narrativa abbassa i toni dell'introspezione per introdurre un'ancor più devastante analisi del mercato del lavoro e del modello socio-economico occidentale. Una gravidanza non è solo un ostacolo per la carriera di lei, è quasi un terzo incomodo che cerca di insinuarsi e di interrompere l'idillio tra lei e il suo dio-lavoro. Lui non teme la responsabilità di diventare padre, ma è terrorizzato dalla consapevolezza che un figlio lo inchioderà ancor più dolorosamente alla croce del suo fallimento. In un crescendo di preoccupazione e paura, la parte consapevole ed inconsapevole dei due protagonisti in scena profetizza una nuova società in cui riprodursi diventa un privilegio solo per chi può permettersi il lusso di non lavorare. Tutti gli altri, in primo luogo le donne, potranno comunque essere felici e riconoscenti del fatto che avranno un lavoro a cui dedicarsi come ad una missione. Lo spettattore si chiede infine se questo mondo non è in realtà implicitamente già quello in cui vive assuefatto.
Personalmente, ritengo che la migliore qualità del testo (che ho trovato ben adattato e ottimamente interpretato) sia la capacità di sottolineare come nel mondo moderno così avaro di spiritualità questa dimensione, che volenti o nolenti fa parte del corredo genetico di ognuno di noi, venga occupata da idoli che dimostrano col tempo la propria inconsistenza. Dopotutto si può credere o non credere all'esistenza di un essere superiore creatore e signore del tempo e dello spazio, ma la storia ci ha insegnato che se non sono le tavole della legge a distruggere il vitello d'oro, ci pensa la nostra infelicità.

venerdì 26 marzo 2010

Scrivo per essere felice

Come sapete, la domanda che più spesso viene posta a noi scrittori, la domanda preferita è: perché scrive? Io scrivo perché sento in me il bisogno di scrivere! Scrivo perché non posso fare un lavoro normale, come gli altri. Scrivo perché voglio che si scrivano libri come quelli che scrivo io, e leggerli. Scrivo perché ce l’ho con voi, con tutti. Scrivo perché mi piace molto stare seduto in una stanza a scrivere tutto il giorno. Scrivo perché posso sopportare la realtà soltanto trasformandola. Scrivo perché tutto il mondo conosca il genere di vita che abbiamo vissuto, che viviamo, io, gli altri, tutti noi a Istanbul, in Turchia. Scrivo perché amo l’odore della carta, della penna, dell’inchiostro. Scrivo perché credo nella letteratura, nell’arte del romanzo, più di quanto non creda in qualunque altra cosa. Scrivo per abitudine, per passione. Scrivo perché ho paura di essere dimenticato. Scrivo perché apprezzo la fama e l’interesse che ne derivano. Scrivo per star solo. Forse scrivo perché spero di capire il motivo per cui ce l’ho così tanto con voi, con tutti. Scrivo perché mi piace essere letto. Scrivo perché una volta che ho iniziato un romanzo, un saggio, una pagina, voglio concluderli. Scrivo perché tutti se lo aspettano da me. Scrivo perché come un bambino credo nell’immortalità delle biblioteche e nella stabile posizione che i miei libri occupano sugli scaffali. Scrivo perché la vita, il mondo, ogni cosa è incrdibilmente bella e sorprendente. Scrivo perché è esaltante trasformare in parole tutta questa bellezza e ricchezza della vita. Scrivo non per raccontare una storia, ma per costruirla. Scrivo per sfuggire alla sensazione di essere diretto in un luogo che, come in un sogno, non posso raggiungere. Scrivo perché non sono mai riuscito a essere felice. Scrivo per essere felice.

Orhan Pamuk, La valigia di mio padre

mercoledì 24 marzo 2010

In memoria del vescovo Oscar Romero

Questo post non avrebbe bisogno di altre parole che di queste:
"Un vescovo può morire, ma la chiesa di Dio, che è il popolo, non morirà mai".
Esattamente 30 anni fa, il 24 marzo del 1980 Óscar Arnulfo Romero y Galdámez pagava con la propria vita il suo impegno a sostegno del popolo e del Vangelo di Cristo.
Giovanni ha scritto: "se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto", ed è sulla base di questa profonda verità di fede che ritengo doveroso ricordare il martirio e la vita di Monsignor Romero, maestro, come tanti altri, che ci ha insegnato quanto la giustizia sociale sia da cercare in questo mondo con tutto lo slancio missionario di cui siamo capaci.

martedì 16 marzo 2010

World Water Day 2010

Il 22 Marzo si celebra la quinta giornata mondiale dell’acqua a Nairobi, in Kenya, per ricordare l’importanza di un elemento naturale di primaria necessità che, nelle stime degli scienziati, andrà nel futuro sempre più scarseggiando.

(Rinnovabili.it) – Nel 1993 l’assemblea generale delle Nazioni Unite indicò il 22 marzo come la prima giornata Mondiale dell’Acqua. Un’occasione per affrontare l’importanza di un elemento che è necessario garantire a tutti gli abitanti del mondo, e che va rispettato anche attraverso un uso sostenibile dell’ambiente.
L’evento vuole rilevare la necessità delle acque dolci e favorire la sostenibilità nella gestione delle risorse idriche. Un modo per discutere su come affrontare le sfide della qualità delle acque che stanno diventando sempre più degradate in tutto il mondo. Ed è in questo contesto che si inserisce il tema del World Water Day 2010, che sarà “Clean Water for Healthy World” (acqua pulita per un mondo sano). Il messaggio che vuole lanciare l’edizione di quest’anno è che l’acqua pulita rappresenta la vita e che la nostra esistenza dipende anche da come proteggiamo la qualità dell'acqua. Soprattutto perché é l’attività umana dell’ultimo mezzo secolo la maggiore causa dell’inquinamento di questa risorsa vitale.
L’Onu stima che ogni uomo ha bisogno di 50 litri di acqua giornalieri, per bere, cucinare e lavarsi. Purtroppo non tutti hanno questa possibilità. Si pensi ad esempio a luoghi come l’Africa, dove vi è la desertificazione e alle zone dove si assiste a un aumento dell’aridità della terra a causa del riscaldamento globale che, secondo recenti studi, negli ultimi quindici anni è raddoppiato. Anche il Papa ha lanciato un messaggio per l’evento: “L’acqua, bene comune della famiglia umana, costituisce un elemento essenziale per la vita, la gestione di questa preziosa risorsa deve essere tale da permetterne l’accesso a tutti, soprattutto ai poveri, garantendo la vivibilità del pianeta sia della presente sia delle future generazioni.”
E parlando di sussidiarietà, solidarietà e responsabilità conclude: “In tale direzione, la gestione sostenibile dell’acqua diviene una sfida socio-economica, ambientale ed etica, tale da coinvolgere non solo le istituzioni, ma la società intera”.

http://www.repubblica.it/news/ambiente/rep_rinnovabili_world-water-day-2010-402619.html


lunedì 15 marzo 2010

E se eliminassimo proprio la tv?!

AUTORIDUZIONE DEL CANONE RAI - aderiamo alla proposta di Margherita Hack! "Mi associo alla lettera di Gianfranco Dominici apparsa su Repubblica del 3 marzo e dopo la decisione di sospendere vari programmi di approfondimento politico essendo stata defraudata dell'ascolto di programmi per cui ho pagato il canone, il prossimo dicembre pagherò solo gli 11/12 del canone Rai invito tutti coloro che si sentono derubati di un loro diritto a fare altrettanto." Margherita Hack

sabato 13 marzo 2010

La libertà, quella no, non possono rubarla.

Dal momento che i mass media convenzionalmente utilizzati, spesso tacciono su questioni di rilievo, soltanto da internet, unico mezzo di informazione libera, vengo a conoscenza che lo scorso gennaio 2010 è nata Radio 100 passi, radio che trasmette da CASA MEMORIA a Cinisi.

La data scelta per la partenza (5 Gennaio) NON E' casuale, è infatti il giorno della nascita di Peppino Impastato.

Peccato che dopo pochi mesi dalla nascita, questa creatura già si trovi con le gambine spezzate, ha subìto, infatti, il Furto di tutte le attrezzature!!!!!!!! Ci si indigna, ci si abbatte, ci si sente con la braccia che vogliono cadere penzoloni a terra, ma è un moto istintivo e anche repentino e fugace. E allora si, LORO potranno pure rubare le attrezzature, ma non riusciranno a trafugare mai la voglia di LIBERTA' delle persone oneste...

La radio vive ancora, qui: http://www.radio100passi.net/crbst_17.html